Un saggio che intende dare inequivoca "visibilità" al fenomeno dell'internamento civile nell'Italia fascista attraverso l'inquadramento storico della materia e la mappatura storico-geografica dei campi. L'autore fornisce precise indicazioni sui diversi tipi di campi e sulle pratiche di deportazione e internamento storicamente sperimentate. A partire dall'internamento coloniale e dal confino di polizia, dove affonda ben salde le proprie radici il sistema dei campi allestiti da Mussolini nella Seconda guerra mondiale. L'analisi tratta anche della Yugoslavia occupata, poiché la vicenda dei civili jugoslavi rappresenta, nel quadro dell'internamento civile fascista, un capitolo quasi ignorato della storia italiana del Novecento.
«Internamento in condizioni disumane»: così recita uno dei tanti capi d’accusa del governo jugoslavo nel dopoguerra, per i crimini commessi dall’esercito fascista di occupazione. E a scorrere la mappatura dei campi di concentramento del duce ubicati nei territori dei balcani annessi al Regno d’Italia, si resta stupefatti per così tanto orrore: uomini, donne e bambini inermi, che muoiono quotidianamente per fame, freddo, malattia. Internati civili, la cui unica colpa era di essere slavi: una «scheggia» di popolo che Mussolini e i gerarchi del suo regime consideravano «sottouomini». Le strutture principali di cui si servì l’esercito italiano in terra d’occupazione furono tre: il campo di Arbe (Rab) per le esigenze del quadrante adriatico settentrionale (Fiume e la Slovenia); il campo di Melada (Molat) per l’area centrale (Dalmazia); i campi di Mamula e Prevalka per il quadrante adriatico meridionale. Ma alla nostra II Armata d’occupazione, la “Supersloda”, era stato assegnato anche il governo di altri cinque campi per slavi in territorio italiano: Gonars e Visco nella Venezia Giulia; Monigo e Chiesanuova in Veneto e Renicci in Toscana. Tuttavia, l’elenco dei lager fascisti dovrebbe continuare e comprendere il Montenegro e l’Albania. Una porzione di storia patria su cui per oltre cinquant’anni ha prevalso il silenzio e la rimozione. Probabilmente, la scoperta della terribile realtà dell’universo concentrazionario nazista ha fatto sì che si potesse ridurre e minimizzare le responsabilità fasciste. «È potuto accadere» inoltre, scrive Carlo Spartaco Capogreco che oggi ci consegna la sua più che ventennale ricerca sui campi del duce, «che immagini di internati jugoslavi scheletriti dalla fame nei campi di concentramento di Mussolini venissero presentate come documenti dell’universo concentrazionario nazista». Un libro utile per sapere e per capire e finalmente per crescere nel segno di una memoria riconquistata. Dunque, pur con tanto oblio storico e con altrettanta condivisa rimozione che ha esaltato il carattere del bravo italiano, fino a trasformarlo in una sorta di mito, oggi sappiamo che a partire dal giugno del 1940, con l’entrata in guerra a fianco della Germania di Hitler, il regime fascista utilizzò l’internamento come ennesimo strumento sistematico e persecutorio per colpire cittadini italiani e stranieri, considerati a vario titolo «pericolosi nelle contingenze belliche». Come era accaduto per il confino di polizia, l’internamento in patria, a differenza di quello attuato nelle zone di occupazione, venne attribuito alla competenza del Ministero dell’Interno. I campi di concentramento furono allora localizzati sulla terraferma, per lo più nelle regioni dell’Italia Centro-Meridionale o su piccole isole, dove alcune ex colonie di confino politico, come Lipari e Ponza, vennero riattivate alla scopo. E seppure, quando si guarda a questo tipo di internamento fascista di civili, non si può fare un paragone con i lager nazisti, occorre comunque rilevare che le condizioni di restrizione della libertà, le difficoltà di rifornimento imposte dall’inasprimento della guerra, l’affollamento degli alloggiamenti rendevano difficile e penosa la vita dei civili internati. I campi di concentramento italiani sottoposti all’autorità civile, tra il giugno del 1940 e l’agosto del 1943 furono complessivamente una cinquantina. La loro direzione era affidata a un commissario o a un maresciallo di pubblica sicurezza, oppure al locale podestà, coadiuvato da carabinieri, questurini o militi fascisti. A guerra conclusa, di fronte all’immane orrore degli oltre cinque milioni di ebrei morti per mano dei nazisti, il bilancio dell’internamento civile italiano sembrò apparire come un male minore, anche perché le migliaia di ebrei italiani e stranieri internati nei campi del Sud, non rientrarono nelle zone di occupazione tedesca e del governo della Repubblica sociale italiana e furono salvati. Per questo, sottolinea Capogreco, da molti racconti autobiografici di ex internati ebrei nei campi italiani emerge un ricordo generalmente positivo. Questo non deve farci dimenticare che il regime fascista praticò fin dal 1938 una politica autonoma antiebraica e che dal 1943 al 1945 il fascismo repubblicano di Salò attuò procedure di arresto e concentramento che portano allo sterminio di oltre ottomila ebrei. E non può farci dimenticare la vergogna dell’internamento a opera delle autorità militari in terra di occupazione. Per sloveni e croati, che costituirono la maggioranza dei prigionieri dei campi, un vero inferno in terra che ha sfiorato lo sterminio. Spartaco Capogreco, storico per elezione e per passione, pediatra di mestiere, ha visitato per anni archivi italiani ed europei, cercando meticolosamente documenti, memorie, planimetrie e fotografie di questa geografia dell’orrore dell’Italia fascista, imponendosi anche all’estero per la qualità e la profondità del suo lavoro di ricerca. Anni di viaggi alla ricerca di luoghi o ruderi dimenticati anche dagli abitanti del luogo. Grazie al suo lavoro che ricostruisce la storia dei campi di concentramento del duce, dei quali nella seconda parte del libro ci consegna il catalogo completo, l’amnesia del “bravo italiano” è finita. Ad essa, con la lucidità critica che caratterizza il suo lavoro, Capogreco attribuisce le colpe di una destra non ancora in grado di staccarsi completamente dal suo passato e di una sinistra che preferì sottolineare i meriti della Resistenza e dell’Antifascismo. «Se in ogni stereotipo, anche in quello del bravo italiano è contenuto un nucleo di verità» scrive l’autore, «ciò non può giustificare l’esaltazione dei soli meriti a fronte delle ben più gravi responsabilità». Una cosa è certa: questa stessa rimozione ha finito con l’offuscare la realtà, favorendo la produzione di una memoria e di una storia spesso distorte.
Frediano Sessi